Migliaia di attacchi terroristici di matrice jihadista, centinaia di uomini, donne e bambini uccisi barbaramente. Non stiamo parlando della drammatica esperienza europea degli ultimi anni. No, parliamo dello Xinjiang, Cina, ovvero della regione autonoma nord-occidentale della repubblica popolare. Non è stata l’unica del paese ad essere colpita, ma sicuramente è stata quella maggiormente devastata da terrorismo, fanatismo ed estremismo, i “tre demoni” come li chiamano in Cina. Se ci mettessimo a fare un confronto sui numeri ufficiali forniti dalle autorità europee e cinesi, la repubblica popolare supererebbe, benché in un arco di tempo più lungo, le analoghe tragedie europee. Mettersi a comparare per capire quale delle tragedie sia stata peggiore non sembrerebbe un esercizio utile. Tuttavia, detto esercizio forse sarebbe sensato alla luce del nostro silenzio sulle vicende cinesi o, se si preferisce, dell’assenza di empatia in Occidente. Al di là della triste comparazione tra numero di assassinii e di perdita di vite innocenti, un dato è certo: i media occidentali, ancora i più influenti al livello internazionale, con in testa BBC e CNN, non solo non hanno raccontato con analoga intensità e coinvolgimento le migliaia di attentati in Cina, ma hanno a volte taciuto su quei fatti, insieme ai nostri governanti, sollevando, al contrario, fiumi di illazioni e falsità sulle risposte cinesi, le contromisure adottate e le attività di controterrorismo. Le tragedie cinesi non hanno suscitato l’ira dei difensori dei diritti umani, anzi sono state spesso strumentalizzate per criticare Beijing. Le attività terroristiche calpestano sempre e comunque i cosiddetti “diritti umani”, che noi, ancora una volta, utilizziamo come dottrina ad orologeria, applicando continuamente un duplice standard. La libertà di mentire sembra essere strutturale alle nostre cosiddette “società aperte e democratiche”, costituendo una sorta di dispositivo di gestione delle relazioni internazionali, oppure, forse, un inevitabile pezzo del filamento di DNA della tradizione liberale.
Veniamo ora alla visita sul campo.
Dal 3 al 7 settembre sono stato in
visita di studio in Xinjiang, ho avuto l’opportunità di vedere la
capitale, Urumqi, e Kashgar, città multietnica situata nell’estremo
occidente cinese. Lo Xinjiang è una regione autonoma musulmana,
confinante con 8 paesi, la più vasta di tutta la Cina, cuore del
continente eurasiatico, dotata di una ricchezza archeologica e
naturalistica unica, ove molteplici etnie centroasiatiche si sono
mescolate per secoli. Non è un caso che sia sempre stata lo snodo
fondamentale della via della seta, antica e contemporanea.
Il viaggio, insieme a studiosi cinesi e
stranieri provenienti da Europa e Asia, è stato estremamente istruttivo.
Abbiamo visitato dapprima il nuovo centro espositivo di Urumqi,
che ospita una mostra sistematica dei maggiori attacchi terroristici e
crimini violenti avvenuti in Xinjiang dal 1990 al 2015. Video originali,
fotografie, descrizioni, ordigni esplosivi e armi utilizzate per
compiere i crimini. Per un terrorismo economico, ma dannatamente
efferato. Una mostra unica e assolutamente scioccante, che presenta
tutto ciò che solo in parte è stato raccontato dai nostri media.
Proprio nel 2009, dopo i tragici
attacchi a Urumqi (197 persone uccise, 1700 ferite, centinaia di negozi,
veicoli e strutture pubbliche date alle fiamme), le autorità di Beijing
hanno chiesto l’accesso alle informazioni di alcuni profili Facebook
utilizzati, come in altre occasioni, dai terroristi. Il social network,
rifiutandosi di collaborare, è stato definitivamente bloccato nel paese.
C’è da dire, inoltre, che in tante altre occasioni Facebook aveva già
dato prova di inaffidabilità per la sicurezza nazionale.
Dopo questa prima visita, ci siamo diretti all’Istituto Islamico dello Xinjiang,
il più grande del paese, una sorta di college per studenti musulmani,
dalle superiori all’università. Questo istituto è stato ampiamente
finanziato dal governo centrale che, tutt’oggi, garantisce buona parte
delle risorse per il suo funzionamento, oltre a contribuire alle borse
di studio per i meno abbienti. Fondato nel 1983, l’istituto conferisce
lauree, offrendo anche formazione non accademica finalizzata a svolgere
servizi religiosi.
Gli studenti seguono corsi di lingue,
religione, legge, cultura e storia. Nel settembre 2017, il nuovo campus,
5,7 volte più grande di quello vecchio nel centro di Urumqi, è stato
costruito nella parte suburbana della capitale. In altre parole, questo
istituto è uno dei tanti esempi che dimostra come le attività legali,
svolte nel rispetto delle leggi nazionali, vengono ampiamente sostenute,
promosse e protette dai governi locali in stretta collaborazione con
quello centrale.
Dopo questa interessante visita, ci siamo poi diretti a Kashgar per recarci presso l’unico centro di “istruzione e formazione professionale”
della città. Per intenderci, quelli che vengono definiti “campi di
concentramento” o di “rieducazione forzata” dai media nostrani e da ONG
non indipendenti, accreditate presso le Nazioni unite. Etichette usate
per screditare il governo cinese, presentato come repressore delle
minoranze. E ciò malgrado BBC e CCN, ad esempio, siano andate a vedere
sul campo che si tratta, come abbiamo constatato, di veri centri di
istruzione e formazione professionale, nati a seguito
dell’implementazione di nuove misure avanzate e non repressive di
contro-terrorismo e de-radicalizzazione.
Strutture realizzate per dare una
risposta alle cause socioeconomiche e soprattutto culturali dei tre
demoni. Ahinoi, i media sopramenzionati si sono dilettati a sostituire
le immagini dei centri professionali con quelle delle prigioni
(ricordate le immagini satellitari?), che sono appunto prigioni dove
sono detenute persone che hanno compiuto reati gravi. E lo hanno fatto
senza parlare della terribile piaga del terrorismo nella regione, senza
condividere la lotta a difesa dei diritti umani, negati alle popolazioni
locali dall’estremismo e dal fondamentalismo.
A seguito di queste nuove sperimentazioni, il governo ha già conseguito dei primi risultati: da quasi tre anni, 32 mesi per l’esattezza, in Xinjiang non si sono più verificati attentati terroristici.
Diplomatici, studiosi, esperti, rappresentati delle Nazioni Unite hanno
potuto apprezzare, insieme al sottoscritto, questa realtà. Abbiamo
parlato coi ragazzi, visitato le aule ove erano in corso delle lezioni,
osservato le innumerevoli attività professionali che vengono insegnate,
tra cui corsi per futuri esperti nel campo del turismo, corsi di
e-commerce, business, estetista, elettrotecnica, tessitura, ecc. Un
laboratorio insomma, per andare oltre la necessaria repressione delle
attività illegali connesse al fenomeno terroristico.
Tutti i ragazzi presenti nella struttura
hanno commesso crimini minori, legati ad attività illegali portate
avanti da imam improvvisati, dediti a impartire dettami sovversivi e a
spingere i ragazzi a disobbedire alle leggi, ad abbandonare la scuola e a
danneggiare le strutture governative. Come rilevato dal direttore
dell’Istituto di storia contemporanea serbo, Predrag Markovic, “anche in
Serbia avremmo dovuto adottare queste misure, invece abbiamo messo in
prigione i giovani radicalizzati, peggiorando le loro condizioni
esistenziali”. Imparare il cinese, oltre alla lingua locale, ed un
mestiere è l’unico modo per garantire opportunità, futuro e reale
integrazione.
Rappresentanti pakistani, bangladesi,
indiani, ma anche europei, tutti ferrati sui fenomeni di terrorismo di
matrice jihadista, hanno apprezzato molto questa esperienza di lotta al
terrorismo che può fornire elementi utili anche ad altri paesi, Europa
compresa. Tutto ciò, è stato rilevato, potrà non essere sufficiente, ma questi
esperimenti cinesi per sconfiggere il terrorismo, di cui è affetto
tutto il mondo, vanno assolutamente condivisi per migliorare la
cooperazione internazionale in questo campo. La Cina è nel bel
mezzo di un processo in divenire di codificazione legale per normare al
meglio misure ed azioni atte a debellare il terrorismo, per proteggere
le collettività e i loro diritti, così come i vari milieu
etnico-culturali.
Il viaggio si è poi arricchito di una
piacevole visita alla città antica di Kashgar e di una serata al mercato
centrale, dove siamo stati intrattenuti da danze e balli rappresentanti
le numerose etnie che convivono nella regione.
Lo Xinjiang, come tutte le aree abitate
da minoranze etniche (56 in Cina), riceve finanziamenti e sostegno dal
governo centrale per sviluppare politiche ad hoc a favore dello sviluppo
delle lingue e dei culti locali, nonché della protezione delle attività
religiose, tutelate da leggi e politiche molto avanzate, coerentemente
coi principi costituzionali.
Questa intensa esperienza si è infine conclusa con una giornata dedicata al seminario internazionale su “Controterrorismo, de-radicalizzazione e protezione dei diritti umani”, sponsorizzato dalla China Society for Human Rights Studies e altri co-organizzatori cinesi.
Cinquanta relazioni, tutte, o quasi,
estremamente interessanti, per condividere risultati di ricerca ed
esperienze sulle attività di controterrorismo nel proprio paese, da
parte cinese e delle altre 17 nazioni rappresentate. Tante sono state le
domande, gli scambi di esperienze e di informazioni, tra chi sembra
essere concretamente ed onestamente al lavoro per rimuovere gli ostacoli
collettivi ad una coesistenza pacifica. La Cina sta facendo la sua parte, sarebbe importante parlarne in maniera onesta e reciprocamente rispettosa.
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Tratto da beppegrillo.it
Fabio Massimo Parenti è autore anche di:
Il socialismo prospero. Saggi sulla via cinese.
NovaEuropa Edizioni, 2017

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